Undici settembre 15 anni dopo

È difficile considerare New York solo una metropoli americana, il suo cuore batte sempre nel petto di tutti: le sue luci, i suoi colori, la sua skyline, le migliaia di volte in cui è stata ritratta dal cinema e dall’arte l’hanno resa la capitale del mondo che conosciamo, il nostro mondo.  Le sue strade, i cui nomi sembrano familiari persino a coloro che non l’hanno mai visitata, ogni giorno sono percorse da milioni di newyorchesi i cui volti testimoniano le provenienze più disparate, e le cui lingue toccano la storia e la cultura dei quattro angoli del pianeta. Guardando New York ci accorgiamo che lei ci appartiene tanto quanto noi apparteniamo a essa, anche per questo siamo tutti americani.

L’11 settembre del 2001, miliardi di persone nel mondo erano incollate alle TV con una fitta di sgomento e incredulità; ognuno davanti allo schermo televisivo come fosse una finestra di uno dei grattacieli newyorchesi, affacciati davanti a una tragedia che, presto, avrebbe cambiato il nostro modo di vedere le cose. Anche allora, infatti, siamo stati tutti americani.

La città era stata attaccata e tutti noi eravamo stati colpiti con lei. A Roma, a Londra, a Parigi, ovunque nelle grandi città del mondo, non importava a nessuno quanti chilometri ci separassero da Manhattan: le nostre lacrime e il nostro dolore non avevano confini che potessero trattenerle, e insieme abbiamo provato pietà per tutte quelle vittime innocenti. Una data che ha segnato un profondo cambiamento, così si è detto più volte, tanto da diventare essa stessa quasi un aggettivo: da allora, ogni volta che un attentato di grandi proporzioni colpirà una città occidentale, infatti, si dirà che quello era stato il loro undici settembre.

Sono passati quindici anni da quell’indimenticabile giorno, tre lustri di “missioni di guerra” e di “missioni compiute” senza che nessuna di queste portasse davvero la compiutezza della pace e di una democrazia in grado di camminare sulle proprie gambe, cioè in grado di farcela senza il sostegno militare degli USA e dei loro alleati.

Quindici ricorrenze che ogni anno erano seguite dai rituali sinceri del rispetto e della commemorazione delle vittime alla presenza dei loro familiari, ma anche dei rituali dovuti delle bandiere a mezz’asta e del minuto di silenzio alla presenza di politici e fotografi.  E poi i moltissimi interrogativi, sollevati per primi dalle stesse famiglie dei defunti, che hanno sempre e solo desiderato fare chiarezza sui dubbi emersi dopo l’attentato. In effetti, contornate dalle numerose e fantasiose teorie del complotto (come sempre accade dopo eventi simili) sono ancora moltissime le domande che non hanno mai ricevuto una risposta chiara e incontestabile. Davvero l’intelligence della prima potenza mondiale non aveva capito cosa stesse per accadere? Come è stato possibile condurre delle indagini, dopo la tragedia, in maniera così frettolosa e soprattutto così piene di falle ed errori? E l’aereo fantasma che dovrebbe aver colpito il Pentagono? Domande alle quali molti giornalisti di inchiesta hanno cercato di dare risposta attraverso anni di ricerca e analisi ma che non hanno ancora avuto alcuna risposta risolutiva.

E poi fu guerra. Prima l’Afghanistan, colpevole di ospitare e proteggere l’ideatore dell’attentato, Osama bin Laden, leader di un movimento terroristico che ancora oggi vuole annientare il nostro modo di vivere e la nostra libertà. Per catturarlo, una coalizione tra le più potenti della storia, dotata di tecnologie e mezzi tra i più sofisticati che il mondo abbia mai visto, ci ha impiegato ben 11 anni. Il risultato è l’aver posto fine alla vita di questo personaggio pericoloso, senza tuttavia mettere fine alla sua organizzazione terroristica. Oggi, altre organizzazioni e altri individui simili a lui ne hanno preso il posto e siamo ancora in alto mare dal risolvere anche l’attuale situazione o quantomeno lontanissimi dal raggiungere una pace che possa dirsi stabile.

Quando accadono degli eventi di portata planetaria che fanno la Storia, alcuni uomini sembrano vederli quasi come un’occasione da sfruttare, per immergersi in quel dolore collettivo, insinuandovi dentro la paura, coltivando l’odio e il desiderio di vendetta, proponendosi come guide o addirittura condottieri verso il riscatto per quanto accaduto, ergendosi infine a paladini di un ideale che va realizzato in un solo modo: con le armi. È quello che è accaduto dopo l’undici settembre.

Da una parte i fautori del terrore conclamato, quello fatto di violenza e fanatismo, di despoti che dicono di agire nel nome di un dio; dall’altra gli interessi di quella parte di occidente corrotto, di uomini il cui unico scopo è il profitto e lo sfruttamento delle risorse, ed il potere fine a se stesso. Con questi presupposti è stato dunque attaccato anche il regime iracheno, cercando a tutti i costi un legame tra Saddam Hussein e quanto accaduto a New York, e inventandosi la falsa storia delle armi di distruzione di massa (una menzogna che infatti si rivelerà tale qualche tempo dopo), scatenando di fatto una guerra che è costata la vita a quasi trecentomila tra militari e civili (*), di cui quasi cinquemila soldati americani.

Si è detto molte volte che la nostra vita e la nostra storia non sarebbero state più le stesse, ma si è fatta anche tanta, troppa propaganda; si sono mischiati spesso gli aspetti più umani ed emotivi di una tragedia immane come quella, con l’odio e la paura. Così si è parlato subito di scontro tra civiltà, di un “noi” contro “loro”, di muro contro muro, di tutto quello insomma che potesse giustificare l’inizio di una lunga guerra che, non essendo combattuta in maniera convenzionale, dopo quindici anni non è ancora finita, e che vede anzi il proprio fronte allargarsi e la prima linea arrivare fin sotto alle nostre case.

Ciò che è cambiato, dunque, sono soprattutto la nostra quotidianità e la nostra consapevolezza. Da una parte, infatti, abbiamo iniziato a non sentirci più al sicuro, abbiamo cioè alimentato noi stessi la paura con altra paura. Dall’altra, la nostra vita ha cominciato a diventare non troppo dissimile dalla vita quotidiana di una parte del mondo che abbiamo spesso, volutamente, ignorato. Da quel terribile giorno in poi, abbiamo smesso di sentirci al riparo da ciò che, fino ad allora, succedeva tutti i santi giorni, ma in luoghi lontani dal nostro modo di vivere, distanti dalla nostra sicurezza di essere intoccabili e invincibili.

Paesi poveri che abbiamo smesso di chiamare Terzo Mondo, adottando una terminologia per noi più tranquillizzante come “Paesi in via di Sviluppo”, nei quali l’undici settembre accade praticamente tutti i mesi tra autobombe, scontri armati, rapimenti di interi villaggi, stupri di massa, bambini-soldato costretti a uccidere o a morire. Paesi che, dall’Africa al Medioriente fino al Sud-Est asiatico, vivono da sempre nella guerra civile, nel terrorismo, nella paura e nell’incertezza, accompagnati anche dalla fame e dalla malattia, dove ogni giorno cade l’equivalente di altre due torri gemelle cariche di innocenti, ma non se ne parla o se ne parla molto poco.

Forse, quell’undici settembre di quindici anni fa, non è stato l’inizio di qualcosa che prima non c’era, ma solo l’ingresso nel nostro “primo mondo” di qualcosa che c’è sempre stato altrove, e al quale continuiamo a non porre rimedio, ma, anzi, in taluni casi, persino a peggiorare.

*(Fonte Organizzazione Mondiale della Sanità tra il 2003 e il 2007)

Antonino Polizzi

(Articolo tratto da “Lo Scaffale” – N. 9 di settembre 2016)

 

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