Religio e res militaris in Roma antica. Ovvero l’uso della divinazione nelle guerre dei Romani.
Nel mondo romano, almeno in quello politeista antecedente all’affermazione del cristianesimo a livello ufficiale, non esisteva una separazione tra sacro e profano e non vi era perciò una scissione tra la sfera religiosa e lo svolgimento della vita pubblica.
Tra le ipotesi riguardanti la nascita della città di Roma si dà grande peso alla presenza di festività comuni alle tribù che abitavano sui colli nella zona della futura Urbe, festività che avrebbero messo in contatto periodico le comunità portandole infine ad unirsi in un unico nucleo abitato esteso nello spazio tra i colli. Emerge d’altronde che alla fondazione di Roma già esistevano una serie di rituali arcaici associati a tali festività e che essi permasero – sebbene con alcune modifiche occorse nel tempo, comunque da dimostrare caso per caso – per tutta la durata della Roma politeista. D’altronde esistevano anche diversi sacerdozi, che lo storico delle religioni Angelo Brelich ritiene essere “una delle realizzazioni più originali dell’arcaica religione romana” (Brelich, Introduzione alla storia delle religioni): essi erano dei collegi sacerdotali di composizione numericamente varia che erano preposti alla celebrazione dei rituali connessi alle festività, sebbene alcuni tra loro non fossero connessi a tali occasioni celebrative.
Tra i diversi collegia sacerdotali uno risulta particolarmente interessante, quello degli augures: essi erano degli operatori rituali incaricati di interpretare i segni inviati dagli dei e trarne il consenso o il dissenso riguardo a opere – da intraprendere o già intraprese – di pubblica importanza.
Il complesso apparato di festività e rituali ad esse connesse, l’attenzione verso gli dei e la ricerca continua di segni che indichino la loro disposizione d’animo nei confronti degli uomini sono tutti fatti riconducibili alla credenza da parte dei Romani dell’esistenza di una pax deorum. Tale pax era un patto (paciscor, cui pax è connessa etimologicamente, ha il significato di “pattuire”, “accordarsi”) che si credeva esistesse tra dèi e cittadini dell’Urbe per garantire la benevolenza divina in cambio di una condotta non offensiva nei confronti delle divinità. Essa era di fondamentale importanza: il suo mantenimento garantiva la salvezza della città, la sua rottura, senza un’adeguata offerta a riparazione del torto commesso, ne avrebbe irrimediabilmente sancito la rovina. Come ovvio, era di particolare preoccupazione per l’autorità pubblica che la pax fosse preservata sia nei comportamenti connessi alla vita pubblica che in quelli connessi alla vita privata – casi come il parricidio o omicidi particolari che colpivano la comunità andavano ugualmente ad intaccarla. La sfera della guerra non era esente da questa preoccupazione.
La guerra era una faccenda non sconnessa dalla sfera della religione: per mantenere la pax deorum i Romani dovevano mantenere un’adeguata condotta anche in campo bellico, combattendo uno iustum bellum, una guerra giusta perché portata avanti in modo onesto, aperto, all’insegna di Fides, la personificazione del concetto di fede giurata, preposta ai giuramenti sacri sia pubblici che privati, dalla quale l’Urbe fu vincolata tanto in pace quanto in guerra, sebbene da un certo momento in poi della sua storia questo avvenne più a parole che nei fatti. Un esempio di tale condotta fu il mancato impiego di sistemi informativi – assiduamente adoperati invece nel vicino mondo ellenistico – molto probabilmente almeno fino al conflitto annibalico quando Scipione iniziò a copiare le tattiche del suo grande rivale tanto sul campo di battaglia quanto nella ricerca di informazioni sul nemico per scoprirne le mosse e i punti deboli. Questo era dovuto al fatto che simili espedienti nel mondo greco erano indicati con στρατηγήματα ed erano considerati parte integrante del modo di condurre le guerre, ma nel mondo romano erano visti sfavorevolmente, come mostra già l’uso del termine fraus – con connotazione decisamente negativa – per indicarli.
All’ambito militare corrispondeva una precisa sfera della religione, con annessi rituali specifici: essa era ambito di competenza, da principio, del dio Mars, Marte. Vi erano feste in onore di questa divinità in due momenti dell’anno: una all’apertura della stagione di guerra, nel mese di marzo (non a caso martius, mese di Marte), l’altra in ottobre alla chiusura del periodo delle operazioni. In primavera si aveva l’apertura della stagione con gli Equirria, celebrati con corse di cavalli, seguiti poi dal Quinquatrus, consacrazione delle armi a Marte, e dal Tubilustrium, una purificazione delle tubae, le trombe di guerra. In ottobre si celebrava invece l’October equus, che prevedeva una corsa di carri nel campo marzio e il sacrificio del cavallo di destra della coppia vincitrice (perché considerato l’animale migliore in quanto vincitore e in quanto, svolgendosi la corsa in senso antiorari, era nella coppia di cavalli quello che stando all’esterno faceva più fatica nelle curve); si compiva poi l’Armilustrium, una nuova lustratio delle armi.
Il dio della guerra godeva perciò di un particolare regime: il cavallo era animale sacrificato solo a lui (gli altri sacrifici erano rappresentati dal suovetaurilia, il sacrificio di un suino, un ovino e un bovino) e, almeno fino all’epoca augustea e all’erezione del tempio di Marte Ultore, i suoi santuari non furono costruiti all’interno della cinta di Roma – dove per altro gli eserciti in armi non potevano entrare – probabilmente al fine di non portare l’elemento guerresco all’interno della città, rischiando discordie civili.
Marte però era il dio che subentrava solamente al momento delle operazioni militari vere e proprie: tutta la fase che portava alla indictio belli (la dichiarazione di guerra) era composta dai rituali affidati ad un collegio di venti feziali, sacerdoti connessi a Giove, nonché dall’apertura delle porte del tempio di Giano (altrimenti chiuse in tempo di pace): interessante a tal proposito è il fatto che il rituale dei feziali si concluda con una lancia scagliata in territorio nemico – o, quando Roma sarà troppo espansa come confini, su un terreno simbolicamente del nemico – lancia che appunto, simbolo di Marte, segnerebbe il subentrare di questo dio alla guida delle operazioni.
Quasi tutte le azioni durante la campagna prevedevano del resto rituali di purificazione o atti religiosi: i soldati, una volta arruolati, prestavano un giuramento di fedeltà personale, di carattere religioso, al loro comandante e valido per tutta la durata del suo mandato. Inoltre ogni volta che l’esercito fissava un accampamento compiva un atto religioso, poiché l’intero accampamento e in particolare la tenda del comandante – dove egli esaminava i presagi – erano luoghi consacrati.
Esistevano poi diversi rituali che avevano lo scopo di propiziare la vittoria: il più classico dei rituali era il votum, la promessa di una ricompensa agli dei in cambio del conseguimento della vittoria (pratica che permarrà nella cultura romana anche dopo l’avvento del monoteismo cristiano). Si poteva però anche ricorrere alla evocatio, rituale che in genere precedeva la conquista di una città da parte dei Romani poiché essi, appunto sempre attenti agli dei, non desideravano che gli dei del nemico gli fossero ostili, portando disgrazie: si prometteva alla divinità protettrice dell’insediamento un culto, più grande e glorioso, a Roma in cambio di un voltafaccia ai danni del nemico. Per altro i Romani temendo di subire a loro volta l’evocatio del nume tutelare dell’Urbe custodivano gelosamente il suo nome, imponendo la morte come pena per chiunque avesse provato a diffonderlo: pare infatti che Roma avesse tre nomi, quello politico di Roma, quello cultuale di Flora e uno segreto, Eros, che altro non sarebbe che il nome stesso del genius urbis Romae, almeno secondo la testimonianza di Giovanni Lido (490-557 d.C.); Plinio il Vecchio e Servio testimoniano di personaggi condannati alla pena capitale per aver rivelato il nome segreto della città.
Da ultimo era possibile anche l’evocazione di divinità infernali, nel caso di situazioni particolarmente critiche, al fine di gettare la rovina sul nemico: in origine vi era il rito della devotio, che poi, sempre più raro, si trasformò nella devotio hostium. Il primo rituale prevedeva che il generale romano, con la sconfitta ormai prossima, ribaltasse le sorti consacrando se stesso e l’esercito avversario a Tellus e agli dei Mani tramite una cerimonia, al termine della quale si scagliava, solo, contro il nemico, che a quel punto veniva “contaminato” da quel contatto. Nella maggior parte dei casi, come ovvio, il comandante moriva, ma nel caso in cui questo non fosse avvenuto il comandante sarebbe rimasto impius per il resto della vita, senza possibilità di piaculum, cioè di purificazione. Onde evitare che, indipendentemente dalla sua sorte e dall’esito dello scontro, il comandante dovesse pagare il prezzo della devotio, era possibile anche la devotio hostium, cioè la consacrazione solamente del fronte avversario.
La religio romana non si esauriva però solo con i sacra (i riti in onore degli dei), ma era completata anche dalla divinazione, parte integrante sia di essa che della vita quotidiana delle persone: anche per questo ramo esistevano esperti consultati tanto dai privati quanto dagli amministratori della res publica allo scopo di conoscere la volontà degli dei.
Nel mondo romano la mantica era alquanto composita e già a livello terminologico esistono notevoli distinzioni in base allo scopo della consultazione e al genere di metodo adoperato.
Gli augures, antichissima istituzione collegiale dell’Urbe, avevano il compito di interpretare gli auspicia – composto di aves e spicere, cioè “osservare gli uccelli” – colti da magistrati o sacerdoti; questo genere di pratica non aveva scopo predittivo, poiché non serviva a conoscere avvenimenti futuri, ma al contrario a sapere se nelle presenti circostanze una certa impresa potesse risolversi positivamente senza intoppi o avere problemi legati all’ostilità di una qualche divinità. A questo genere di segni si aggiungevano gli omina (presagi), gesti o parole fortuiti che ad un attento osservatore potevano, in determinate circostanze, preannunciare il futuro, e i portenta (prodigi), fenomeni naturali inspiegabili e sovente terrificanti – la terminologia, piuttosto varia, ha tra i sinonimi di portentum anche il termine monstrum, da cui l’italiano mostro, qualcosa appunto che sovverte l’ordine naturale al punto da risultare ripugnante. Sebbene a prima vista solo gli omina sembrino rientrare a pieno nella divinazione, essendo presagi su eventi futuri, non bisogna dimenticare che nel mondo antico anche l’interpretazione del presente e del passato erano parte integrante della mantica: ecco quindi come auspicia e portenta finiscono per farvi parte.
Nella concezione romana i segni nefasti, come detto, erano spia del malcontento divino: esso era provocato da comportamenti scorretti degli uomini, alle volte volontari, nella maggior parte dei casi frutto di inconsapevoli mancanze umane, specialmente in ambito rituale. Il male determinato da errori a livello rituale era comunque emendabile tramite degli opportuni interventi espiatori, segnalati da esperti. Osservati i segni, compresa la necessità di porre rimedio all’insoddisfazione di un dio, i magistrati e il Senato avevano a disposizione diverse risorse per trovare un rimedio – nel caso in cui si fosse ritenuto di essere alla presenza di un prodigium di pubblico interesse: il rito espiatorio (procuratio) poteva essere affidato ad alcuni dei collegi sacerdotali più importanti di Roma, ossia i pontefici e i decemviri (poi divenuti quindecemviri), oppure agli aruspici.
Da principio furono gli àuguri a fornire le indicazioni per le espiazioni, poi si ricorse sempre di più all’uso dei libri Sibillini, il cui primo impiego è databile al 461 a.C., sebbene il loro utilizzo si sviluppò solamente durante la seconda guerra punica. Si tratta di una raccolta di profezie che, stando alla leggenda, sarebbe giunta in possesso dei Romani durante l’età monarchica (comprata da Tarquinio il Superbo o forse Prisco) e consisterebbe di tre libri (in origine sei, stando alla leggenda) frutto delle profezie della Sibilla di Cuma. La raccolta bruciò nell’incendio del Campidoglio dell’83 a.C. e venne ricostruita mandando inviati in tutte le città, dall’Italia all’Asia minore, ove ancora esistessero profezie sibilline: venne realizzata così una nuova silloge profetica, spostata da Augusto nel tempio di Apollo sul Palatino. La raccolta, che la leggenda vuole essere di origine greca, sarebbe però da ritenere frutto di una mediazione etrusca, poiché solo gli Etruschi, e non già i Greci e i Romani, avevano una religione basata su libri sacri – e non casuale sarebbe la loro comparsa proprio durante il periodo della monarchia etrusca in Roma. Quello che più conta è che i libri, pur non essendo fondamento della religione romana, contenevano tuttavia gli arcana imperii, i segreti grazie ai quali Roma sarebbe sopravvissuta e avrebbe prosperato (in questo si ritroverebbe l’elemento etrusco, giacché in Etruria i fata della nazione erano contenuti, e per questo garantiti, nei libri sacri rivelati e tramandanti la parola degli dei). La loro consultazione era operata dal collegio di decemviri (poi quindecemviri) che ne erano custodi e interpreti e aveva lo scopo di individuare gli dei a cui andava rivolta la procuratio e il tipo di riti e offerte necessari per placarli.
Anche gli aruspici svolgevano un ruolo importante nell’interpretazione dei segni: essi nello specifico operavano mediante l’analisi delle viscere degli animali che – interpretate in base alla forma, al luogo, al tempo e alle circostanze del segno per cui essi erano stati interpellati – potevano fornire una pletora di indicazioni particolareggiate. L’aruspicina è pratica di origine etrusca, ma deve la sua introduzione ancora una volta all’egemonia dei Tarquini. Proprio perché compiuta da stranieri in più occasioni vi fu diffidenza nei confronti di questi operatori rituali: durante la guerra con l’etrusca Veio (V sec. a.C.) e fintanto che perdurarono scontri periodici tra Roma e gli Etruschi, si ricorse raramente o nient’affatto ai loro servigi. Una volta compiuta l’assimilazione nell’universo romano, gli aruspici finirono al servizio di una clientela esclusivamente romana, sia pubblica che privata, adattando il proprio sapere alle sue esigenze.
La divinazione era, come già i sacra, parte integrante della sfera della guerra: nel condurre le campagne era pratica diffusa che i comandanti si affidassero a degli esperti operatori rituali per sapere di eventuali malcontenti divini dovuti alle loro azioni, conoscere in anticipo l’esito degli scontri imminenti o anche comprendere il perché di una disfatta.
Che la divinazione fosse strumento non trascurabile per i comandanti è testimoniato da quanto scritto da Onasandro, autore dello “Stratègikos”, importante manuale militare risalente al I sec. d.C. nel quale si elencano, tra le altre cose, i tratti e i doveri del generale ideale. In esso Onasandro, quando passa ad esaminare le qualità di un generale, afferma la non trascurabilità dell’esame delle viscere delle vittime sacrificali prima della battaglia: “Non avvii l’esercito in marcia né lo schieri a battaglia senza aver prima fatto sacrifici; ma lo accompagnino sempre sacerdoti e indovini. Ottimo sarebbe che egli stesso sapesse interpretare con esperienza i segni divini […] in modo che egli diventi buon consigliere di se stesso” (traduzione a cura di Corrado Petrocelli). L’autore prosegue poi scrivendo: “ricevuti presagi favorevoli, dia inizio ad ogni azione, chiami tutti i comandanti ad osservare le indicazioni divine, affinché essi, dopo averne preso atto, possano incitare quelli ai loro ordini […] infatti i soldati di molto prendono coraggio, laddove ritengano di affrontare il pericolo col favore degli dei” anche perché i soldati, afferma Onasandro, traggono auspici ciascuno per conto proprio da segni e suoni, ma ogni preoccupazione ed incertezza svanisce dinnanzi al buon esito di un sacrificio pubblico. Al contrario in caso di presagi sfavorevoli “deve rimanere negli stessi luoghi, anche se qualcosa troppo lo incalzi, sopportare difficoltà […] sicché, se la situazione futura migliorerà rispetto al presente, si impone che ottenga buoni presagi e che sacrifichi spesso nel corso del medesimo giorno. Infatti, una sola ora e un attimo causano la rovina di chi arriva o troppo presto o troppo tardi”.
Cicerone tramanda, nel suo De divinatione, un episodio chiarificatore dell’importanza che veniva attribuita ai presagi. Il console Lucio Emilio Paolo, futuro vincitore della Terza guerra romano-macedonica, era preoccupato per l’esito dell’incarico che gli era stato affidato: “Lucio Paolo, console per la seconda volta, essendogli toccato l’incarico di condurre la guerra contro il re Perseo, quando in quello stesso giorno, sull’imbrunire, ritornò a casa, nel dare un bacio alla sua bambina Terzia, ancora molto piccola a quel tempo, si accorse che era un po’ triste. «Che è successo, Terzia?» le chiese; «perché sei triste?». E lei: «Babbo», disse, «è morto Persa». Egli allora, abbracciandola forte, disse: «Accetto il presagio, figlia mia». Era morto un cagnolino che si chiamava così” (Cic. De div. I,103 traduzione a cura di S. Timpanaro).
Gli omina erano alquanto diffusi e per loro natura inaspettati: essi non erano però necessariamente favorevoli ragion per cui si cercava di tenere lontano i presagi sfavorevoli, in altre parole abominare, “respingere un cattivo presagio”. In certe circostanze si tentava perciò di porre delle basi positive per la riuscita delle imprese, pronunciando solo parole di buon auspicio oppure tacendo. Questo fatto era per altro molto rilevante già nella fase di leva: nel reclutare i soldati, i consoli badavano che il primo arruolato avesse un nome ben augurante.
Come visto, non esistevano solo omina, ma anche portenta: fu nella II guerra punica, il momento più critico per la Repubblica romana, che si avvistarono un grande numero di portenta. Per la loro interpretazione furono con frequenza chiamati in causa i Libri Sibillini, che da allora iniziarono a godere di grande importanza nel campo della divinazione – con una fase di decadenza corrispondente alla restaurazione augustea del mos maiorum, sentiero sul quale i suoi successori proseguirono, almeno fino al tardo principato. Tra le altre, la loro consultazione porto, nel 216 a.C. al sacrificio del Foro Boario, un sacrificio di una coppia di Galli e una di Greci al fine di scongiurare la presa della città da parte del nemico: un’usanza, quella del sacrificio umano, del tutto estranea al mondo romano (probabilmente di derivazione etrusca, dove era in uso e venne praticata su prigionieri romani nel IV sec. a.C. ), che fu messa in atto sempre su indicazione dei libri Sibillini nel 228 o 225 a.C. e prima ancora solo nel IV sec. a.C., sempre nell’incombenza di una grave minaccia diretta all’Urbe.
Nel periodo del dominato, da Diocleziano in poi, giunsero a maturazione una serie di cambiamenti che da lungo tempo covavano nell’ambito religioso e in special modo in quello connesso alla guerra: presso i soldati si diffusero diversi culti nuovi, in particolare il culto di Mitra – religione misterica riservata ai soli uomini e i cui iniziati erano in larga parte soldati – e il culto di Sol Invictus (si tentò anche, senza successo, un’assimilazione tra i due culti). In generale nel tardo impero, sebbene il Cristianesimo fosse ampiamente diffuso tra le fasce della popolazione civile, nella sfera militare rimasero di grande importanza le tradizioni politeiste. Questo fatto è dimostrato sia dalle dediche che ancora al principio del IV secolo venivano compiute da comandanti alle divinità (ora Giove Ottimo Massimo, ora la dea Vittoria, ora Mitra stesso) per onorarle e ringraziarle delle vittorie concesse, sia dalle consultazioni dei Libri Sibillini che a più riprese vennero anche adoperati per trovare non solo procurationes ma anche per ricercare soluzioni alle situazioni di crisi: Aureliano nel 271 a.C. dispose la consultazione dei libri per trovare un rimedio alle molteplici devastazioni che i Marcomanni stavano operando nei territori dell’impero ottenendo il responso di celebrare dei rituali in delle specifiche località al fine di arrestare l’avanzata dei barbari.
Se le testimonianze dimostrano l’attenzione dei Romani verso la religione e in particolare verso la divinazione nel corso delle campagne militari, è altresì vero che le fonti ci mostrano anche un quadro abbastanza differente: lo stesso Cicerone rivela, sempre nel De divinatione, come i presagi non sempre fossero ascoltati e che anzi alle volte fossero un peso per i comandanti, che al pari di una certa parte dei quadri dirigenti della società civile avevano una visione disillusa nei confronti di tali pratiche.
Un caso esemplare riguarda un omen che Crasso avrebbe ricevuto mentre si apprestava a partire al comando delle legioni per la celebre quanto disastrosa spedizione contro i Parti. Mentre il triumviro attendeva la fine delle operazioni di imbarco dell’esercito nel porto di Brindisi sentì un venditore di fichi gridare “Cauneas”: da intendere come “fichi di Cauno”, l’esclamazione poteva però suonare anche come “caue ne eas”, guardati dall’andare. Quell’omen, stando a questo racconto, avrebbe potuto salvare la vita a Crasso e ai suoi, ma fu ignorato dal generale: d’altronde Cicerone stesso si mostra scettico al riguardo, sostenendo che “se accettiamo idee di questo genere, dovremo stare attenti a tutte le volte che inciampiamo, che ci si rompe la stringa d’una scarpa, che starnutiamo” (Cic. De div. II, 84). Non si tratta poi del solo Crasso: il celebre scrittore prosegue nella sua opera lamentando che le vecchie usanze della divinazione erano invece del tutto scomparse e che i generali ormai non traevano più auspici prima di intraprendere azioni di guerra o di iniziative come attraversare i corsi d’acqua (Cic. De div. II, 76-77).
Era invece diffusa una nuova usanza, sorta negli ambienti militari e diffusasi poi anche al mondo civile: la pratica di trarre auspici dall’appetito dei polli. Alcuni di questi volatili erano tenuti in gabbia e affidati alle cure di un pullarius: da essi si sarebbero tratti degli auspici positivi se nel mangiare avessero fatto cadere della granaglia dal becco. Ma Cicerone stesso palesa l’essenza di questa tecnica, atta a forzare gli auspicia: era infatti prassi abbastanza diffusa che i polli venissero affamati di modo che, avvicinati infine al cibo, mangiassero con ingordigia fino a far cadere del cibo. Era così possibile forzare i responsi per ottenere il permesso di agire, sebbene una volta sfamati sarebbe stato difficile ottenere nuovi responsi in tempi brevi, intralciando in questo modo le manovre dei comandati.
In effetti i casi di comandanti che non intendevano sottostare alle pratiche religiose perché desiderosi di poter agire nella massima libertà durante le azioni di guerra non erano nemmeno rari: è sempre lo scrittore nativo di Arpino a raccontare (Cic. De div. II, 77) del console Marco Marcello, che fu console cinque volte e che non si avvalse mai degli auspici tratti dalle punte di lancia, prassi divinatoria tipicamente militare e che, oltretutto, quando era desideroso di portare a termine una campagna militare viaggiava su una lettiga coperta per non essere “disturbato” da auspici. Eppure, viene sottolineato, questo non impedì che egli fosse comunque un ottimo comandante.
Che i comandanti non fossero necessariamente credenti nelle arti divinatorie, almeno non fino al punto di perdere l’iniziativa in momenti propizi, risulta confermato anche da alcuni episodi che gli autori Plutarco e Svetonio ci tramandano (Svet., 59 e Plut, Caes, 52, 2). Eppure, quello che emerge dalle narrazioni è che la divinazione nel contesto bellico aveva grande importanza, soprattutto per i soldati, che potevano risentire a livello di morale di presagi sfavorevoli: nello sbarcare in Africa, Cesare inciampò ma ebbe la prontezza di volgere in suo favore questo presagio nefasto esclamando “teneo te, Africa!”, cioè “ti tengo, Africa!” ; sempre in Africa, poi, essendo a conoscenza di un oracolo che, rassicurante per il fronte avversario, recitava che la gens degli Scipioni sarebbe sempre stata vittoriosa in Africa – tra le fila nemiche militava un membro di quella gens – volse a proprio favore tale profezia mettendo in prima linea ad ogni scontro, quasi fosse un generale, un uomo sconosciuto, ma appartenente alla famiglia degli Scipioni e di nome Scipione Sallustio.
Appare quindi chiaro che i comandanti romani si trovarono, nell’adempimento delle loro funzioni, ad avvalersi della religione per conseguire il successo per mezzo di rituali e di responsi di esperti facenti parte del loro entourage. Eppure dalle cronache sembrerebbe evincersi anche che essi, in particolar modo dal periodo delle guerre civili in poi, affidarono l’esito delle azioni più alla propria esperienza e alle circostanze favorevoli che ai responsi circa la volontà degli dei, non badando molto a tali pratiche se non per tenere alto il morale dei propri uomini o per manipolarle a proprio vantaggio, come già Mario e Silla appaiono fare nelle biografie plutarchee.