Manfred Spitzer – “Demenza Digitale”

Pare che il termine “Demenza Digitale” sia noto nella letteratura psichiatrica già dal 2007, anno nel quale i medici di Seoul riscontrano un disturbo neuropsichiatrico che, in una percentuale vicina al 12%, testimonia la vera e propria dipendenza da internet dei giovani studenti coreani. Fino a giungere al caso più eclatante, che costringe gli psichiatri a dover usare questa espressione. Si tratta di un adolescente che viene ricoverato all’ospedale psichiatrico di Seoul, con l’incapacità di concentrarsi e di ricordare le informazioni più semplici. Insomma l’eccessivo uso di dispositivi elettronici ha atrofizzato la sua capacità di passare i ricordi dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.

Quando Manfred Spitzer nel 2013, già docente di psichiatria all’Università di Ulma, realizza questo saggio sull’effetto delle tecnologie informatiche sul cervello riprende dunque questo termine, aggiungendo un sottotitolo eloquentemente polemico: “come la nuova tecnologia ci rende stupidi”. Accusato di compiere una crociata contro la diffusione delle tecnologie, Spitzer sembra tuttalpiù esprimere al suo pubblico una profonda preoccupazione. In particolare rivolge la sua attenzione verso i più giovani, bambini e ragazzi che, in uno stadio della vita in cui stanno ancora completando il processo di sviluppo cognitivo, vengono alienati dai numerosi dispositivi tecnologici che finiscono col nuocere, secondo il neuroscienziato tedesco, a tutto il corpo ma soprattutto al cervello. Naturalmente gli effetti negativi riguardano anche gli adulti, in particolare sono stati registrati casi di depressione, insonnia, depersonalizzazione ed un atteggiamento improntato spesso sul cinismo derivante da una cronica insoddisfazione verso se stessi.

Spitzer parla di gravi conseguenze psicologiche, e ad una affermazione così forte allega dati ed esempi, in certi casi anche allarmanti. Come nella Corea del Sud ad esempio, dove 7 giovanissimi su 10 possiedono uno Smartphone sul quale passano circa 7 ore al giorno. Negli Stati Uniti la maggior parte dei giovani tra gli 8 e i 18 anni spendono più tempo davanti al PC o allo Smartphone che in qualunque altra attività, sia essa sportiva, ricreativa o scolastica, con una impressionante media di 8 ore al giorno. Alcuni di questi dati trovano conferma anche in Italia, dove un rapporto pubblicato dal CENSIS rileva che il 15% dei ragazzi tra i 14 e i 29 anni passano una media di 5 ore al giorno sui media digitali.

Anche sull’idea che i media digitali migliorino l’apprendimento, Spitzer fa notare come molti studi dimostrerebbero proprio il contrario. Per non parlare del danno che possono provocare ai bambini in età prescolare, ci ricorda l’autore, che sottolinea come lo sviluppo delle facoltà cognitive nei più piccoli deve passare per la manualità, il gioco fisico da fare da soli o in gruppo, il disegno alla vecchia maniera, ecc.

Il filosofo Karl Popper fece notare, in tempi non sospetti e ben lontani dall’universo dei social media e soprattutto dei social network di oggi, che qualunque stimolo proveniente da una realtà virtuale rende il soggetto uno spettatore oltremodo passivo, privo cioè della capacità costruttiva di chi deve “immaginare” qualcosa, piuttosto che trovarsela già pronta e servita. Poiché altrimenti rischia l’atrofia di quella porzione del cervello o, peggio, della sua fantasia.

Infine, come è ovvio, Spitzer ci tiene a precisare che non vuole assolutamente demonizzare i media, anzi, li elogia perché sicuramente hanno contribuito a farci avere una miriade di informazioni in tempi rapidi, ci hanno aiutato nel lavoro e nelle professioni più a rischio, ci hanno aiutato nella condivisione democratica, ecc. Ma è altrettanto ovvio, ci ricorda l’autore, che bisogna saperne dosare l’utilizzo, trovando sempre più tempo per sane attività che non richiedono tecnologia, abituando il cervello a imparare, attivamente, in equilibrio tra la realtà fisica e quella virtuale.

Antonino Polizzi

(Articolo tratto dal mensile “Lo Scaffale” – N. 3 di marzo 2014)

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