
Una figlia e una madre, un rapporto castrante, due generazioni a confronto, un’apparente incomunicabilità che pure alimenta un legame tossico. Maria Elena, però, è diventata madre a sua volta e, negli errori che commette ogni giorno, riconosce un’eredità non richiesta. Bisogna tornare indietro, tagliare quel cordone ombelicale e guadagnarsi un’indipendenza affettiva per se stessa e per sua figlia. E Maria Elena lo fa: torna indietro, scrive alla madre una lunga lettera in cui ripercorre traumi e ferite. E più la storia si snoda, più emergono conflitti irrisolti che richiedono un processo di guarigione. E, se guarire da una madre-Medusa si può, il prezzo da pagare è raccontare una storia senza finzioni.
Nel mito Medusa era un Gorgone e, a discapito del nome che voleva dire “protettrice”, aveva il potere di pietrificare chiunque incrociasse il suo sguardo.
Questa sei: una madre nera, una madre-Medusa. Ti bastava uno sguardo per impietrire i miei sogni, i progetti, i successi sudati; ti basta uno sguardo per uccidere la gioia che ancora oggi, a volte, sono in grado di provare prescindendo da te.
Non so se conoscete Maya Angelou. L’autrice afro-americana, tanto eclettica da cimentarsi nella poesia, nella narrativa, nel teatro, è una delle voci più apprezzate del panorama letterario americano. Una delle sue frasi più celebri ricorre spesso nei social. Pare che, che durante un’intervista rilasciata per l’uscita di un testo mai pubblicato in Italia, “Mom and Me and Mom”, dichiarò: “Descrivere mia mamma, vorrebbe dire parlare di un uragano alla massima potenza.”
Ignoro se l’accezione originaria di “uragano” sia stata intesa in senso negativo o positivo, ma è perfetta per introdurre l’ultima fatica di Maria Laura Caroniti, Madre Medusa, edito Mursia nel Marzo scorso: perché è l’esatta sintesi della madre di Elena, la protagonista del romanzo: una madre – Medusa, prima di tutto, ma anche una madre-uragano, una madre–tzunami; una potenza così inarrestabile da manipolare e amputare l’anima di una figlia.
Madre-figlia: è questo il tema centrale di questo potente romanzo, il rapporto per eccellenza, quello carnale e primordiale. Per Elena nasce già tronco, invalido, disfunzionale. È una specie di gabbia, fatta di tentacoli e occhi, da cui è quasi impossibile fuggire, anche quando, dopo anni, Elena torna a riflettere su quel rapporto, ne individua i meccanismi inceppati e le parti mancanti.
Sei il modello, l’archetipo, e io sto seguendo i tuoi passi. Mi ostino, punto i piedi come un mulo testardo, poi avanzo e il mio piede s’infila dritto nella tua orma, ne rispetta il perimetro, non si discosta dai contorni. E divento anch’io, ogni giorno che passa, la pessima madre che sei stata per me.
È così che parte la narrazione.
La voce di Maria Elena, mette subito in chiaro che è legittimo odiare una madre e le sue grida di aiuto emergono da ogni pagina, così come le lacrime silenziose, che scivolano tra le parole senza addolcirle, indurendole, anzi, di una rabbia mai elaborata, di uno sconforto opprimente da cui ci si chiede come abbia fatto a sopravvivere la Elena bambina. Le parole dell’autrice non mentono: sono chiarificatrici e feroci, tanto da non lasciare dubbi interpretativi sul bisogno della protagonista di raggiungere l’indipendenza emotiva da quella madre che la tormenta.
Io, lettore, sono tentato di prendere in mano Elena e consolarla, accostando al suo, il mio dolore. Cammino lungo le strade della sua infanzia, straziandomi per gli abusi – sì, abusi e violenze perpetrati a danno dell’anima – che nessuno vede, nessuno sente, nessuno riconosce pur essendocene i segnali. Non noto carezze, né gesti di affetto; Madre-Medusa è un buco nero dove non attecchisce amore. Anzi, è una bestia che nel buio azzanna, mastica, inghiotte e sputa.
Come tutte le bambine avevo bisogno d’amore, come tutti ho bisogno d’amore. A chi racconto di quanto mi senta triste, di come non mi veda bella, delle notti in cui la paura mi accorcia il respiro e il panico fa il resto? Finalmente il buio risponde; a lui parlo, lui mi stringe la mano quando tutto diventa troppo.
Elena è sola; il padre è un burattino che riempie la scena con i suoi occhi stanchi, fatti di una sofferenza lontana e sogni mai realizzati, ad eccezione di quello di avere una famiglia tutta sua (poco importa che quella famiglia sia fuori dagli schemi, sia menomata). Le amiche? Come possono capire? Come può, Elena, perdonarle per la loro superficialità?
Ma poi arriva Ettore; non l’innamorato, non l’amante, bensì l’unico, profondissimo amico che le mostra una via di fuga, l’uscita dall’incubo. In Ettore, Elena si specchia e trova una mancanza come la sua, da colmare. In Ettore Elena trova la comprensione, la fiducia, l’unità d’intenti, la passione per la lettura e la cultura. Trova un alleato per la sua guerra, quella contro l’archetipo, l’esempio malato.
Io avevo visto lui e lui aveva visto me, in tutta quella cocente bellezza che a noi appariva mancanza. Accettandoci, non sapevamo di buttarci nel vuoto.
Ma Madre-medusa è un avversario dai mille volti e sfumature. Elena si illude di poterlo sconfiggere, se ne discosta, si allontana. Eppure basta uno sguardo perché la figlia chini la testa e torni ad occupare il suo posto.
Sono adulta, ho la mia vita. Posso razionalizzare, voltare pagina, concedermi un’indulgenza. Eppure con te mi trasformo: torno piccola, indifesa, malgrado anche io urli come te, più di te.
Ma sua madre è davvero così abile a nascondere la sua vera natura? O c’è qualcos’altro?
La verità è più dolorosa delle menzogne con cui Elena si è fatta scudo negli anni. È una verità inaccettabile (no, sta fingendo, perché nessuno mi crede?), sconvolgente, capace di rimescolare tutte le carte in gioco.
Ma è da questa verità che Elena può ritrovare se stessa.
In una Sicilia dei giorni nostri e dei tempi andati, in cui la tradizione è fatta di parole semplici e semplici pensieri e lo scenario è disegnato con la dolcezza di un amore indissolubile; in un giardino in cui la poesia e la letteratura si rincorrono di verso in verso, e in cui i personaggi emergono in tutte le loro sfumature, una donna, supera il suo più grande fallimento, per ricostruire pezzo dopo pezzo la sua storia. È una figlia che mette in discussione l’esempio; è una madre che perdona i suoi stessi errori. È un grido che echeggia attraverso il tempo sino a noi, e un orecchio che, finalmente, è pronto a consolare tutta la sua tragica disperazione.
Questa è la storia delle donne della tua famiglia ed è qui che mi ribello. Con me muore, non andrà avanti questa stortura che si nutre di dolore, paura e malattia. Non farò scempio del mio cuore, né di quello di Sofia. Sbaglierò anche io. Parole, gesti, mancanze, assenze. Le chiederò perdono, dovrà perdonarmi, non lo farà, ma non continuerò a dare il fianco a quest’errore.
Leggere questo romanzo vuol dire intraprendere un viaggio; a momenti sarà doloroso, altre sarà quasi salvifico. Vuol dire aprirsi un po’ di più alla comprensione profonda di se stessi e dei meccanismi che ci tengono ancorati a cattive a abitudini e a pensieri rovinosi. Vuol dire imparare a perdonarsi, un passo alla volta. Che è il segreto, forse il più grande, per tendere alla serenità.
(Recensione tratta da Feel The Book – a cura di “Ash”)


Antonio Polizzi, laureato in Filosofia con Master in Comunicazione Multimediale e Master in Insegnamento della Lingua Italiana agli Stranieri, dirige la Rivista Ethos come Giornalista Pubblicista, collaborando con prestigiosi blog di Narrativa e Arte.
Editor e Traduttore dall’Inglese presso Hope Edizioni, si specializza nel meraviglioso mondo del Romance e del Thriller, portando storie internazionali al pubblico italiano.
La sua naturale predisposizione per rendere semplice ciò che appare complesso lo ha portato a essere docente in numerosi corsi, sia in aula che online, dove combina la passione per il benessere olistico e la filosofia con l’innovazione tecnologica e la comunicazione moderna.
Per Antonio, scrivere e leggere non sono semplici attività, ma necessità vitali quanto il respirare.