Il termine fu coniato per la prima volta dal Trends Research Institute, per indicare coloro che rinunciano alla frenesia del mondo moderno, al super-lavoro, al successo effimero, per dedicarsi almeno in parte ai propri interessi e alla famiglia. Erano i primi anni ’90, il decennio dei manager cinici e rampanti, ma con il downshifting per la prima volta si diede il volto e il nome ad un fenomeno del mondo del lavoro che era destinato a segnare un nuovo modello di vita.
Il fenomeno ha avuto i suoi natali nel mondo anglosassone e per il New Oxford Dictionary essere downshifter significa “scambiare una carriera economicamente soddisfacente ma stressante, con uno stile di vita meno faticoso e meno retribuito ma più gratificante dal punto di vista personale” In Italia non è ancora molto diffuso e si è cercato di renderne la traduzione con il neologismo di “semplicità volontaria” e in effetti è proprio l’ideale della semplicità quello che sta alla base della scelta di sacrificare quel tanto della propria carriera, spendendo un po’ più del proprio tempo e delle proprie energie per se stessi. Un ideale questo che è stato rilanciato soprattutto negli ultimi anni, con la pubblicazione di libri che affrontano l’argomento elogiando l’ozio e la lentezza, con una maggiore considerazione per temi quali l’ecologia e la salute, nell’aprile di quest’anno in Gran Bretagna è stata istituita addirittura la settimana dedicata al downshifting. Anche se è difficile fare delle previsioni in questi casi, alcuni ricercatori credono che entro la fine del 2007 oltre 3 milioni e mezzo di sudditi di sua maestà aderiranno ai principi del downshifting, mentre non si hanno ancora dati per il resto d’Europa e per il nostro paese, dove tra l’altro i media molto spesso liquidano questo fenomeno come una moda New Age, rimproverando che è più facile parlare di rinuncia e semplicità per chi svolge un lavoro manageriale di rilievo nel quale può permettersi di gestire i propri orari e il proprio impegno. Ma si direbbe una critica infondata, poiché non esiste nessuna figura manageriale che possa davvero permettersi di gestire un lavoro in lentezza, senza doverne poi rispondere a qualcuno ancora più in alto di lui e senza oltretutto perderne in guadagno. Per questa ragione si può dire che il downshifter è colui che consapevolmente rinuncia ad una vita che non gli appartiene, senza compiere scelte troppo radicali ma correndo soltanto il rischio di essere felice.
Probabilmente questo è un fenomeno antico quanto l’uomo che periodicamente torna a fare notizia a seconda delle esigenze della società in cui si diffonde. Di certo a fare notizia quando abbandonano la carriera sono gli uomini e le donne che hanno avuto maggiori responsabilità. Pensiamo all’americano Robert Reich, docente universitario e segretario di stato sotto la presidenza Clinton, che decise di dimettersi durante il secondo mandato del presidente democratico per dedicarsi alla famiglia e che da molti è considerato il padre simbolico dei downshifter. Immaginate per un attimo come sarebbe se la stessa scelta venisse compiuta anche dai rappresentanti della nostra classe dirigente.
Antonino Polizzi
(Articolo tratto dal mensile “Lo Scaffale” – N. 6 di giugno 2014)