“Se oggi in Italia ci fosse la guerra… tu dove andresti?”
Comincia così questo libro scritto dall’autrice danese Janne Teller, ben nota per le sue opere che sono sempre protagoniste di accesi dibattiti e ampie riflessioni. Un incipit che spinge verso una domanda fondamentale, quella dell’immedesimazione, della comprensione empatica, verso chi in questo preciso istante sta vivendo una terribile guerra nel proprio Paese e, dopo aver perduto tutto ciò che ha – comprese alcune o tutte le persone care – non sa più cos’altro fare né dove andare. Cosa faremmo noi, se dovessimo trovarci nelle stesse condizioni di tutti quei poveri profughi che fuggono dalle così tante guerre in giro per il mondo? Cosa faremmo per trovare un posto sicuro dove poter avere salva la nostra vita già martoriata da violenze, ferite, torture, miseria, shock, fame e disperazione?
Viene considerato un libro per ragazzi, anche se la sua connotazione dovrebbe essere ben più ampia e abbracciare certe persone che si definiscono adulte, ma è comunque soprattutto ai giovani che si rivolge per dare un input, in modo semplice e immediato, affinché esplorino i motivi che hanno generato quelle condizioni di vita, dovute alla guerra ma non solo. Condizioni ben lontane dal nostro “primo mondo” che, da sempre, dispone di risorse, servizi, tecnologie, democrazia, e molto altro ancora che un’altra parte del mondo, la maggior parte per essere precisi, non ha mai avuto e non è ancora in grado di avere. Questo invito alla sensibilità su un tema così spinoso e importante, ma anche così spesso ignorato dai Media occidentali o strumentalizzato da una politica dell’odio perenne, può indurre i giovani lettori ad una visione più grande e più consapevole. E quale miglior modo se non penetrando quelle vite, leggendo di situazioni non come se riguardassero qualcun’altro in un posto lontano dai nomi esotici e sconosciuti, ma i nostri luoghi di vita quotidiana. Questo libro ci chiede di immaginare che sotto alle bombe ci sia la nostra casa; che in mezzo alle macerie a cercare qualcosa da mangiare ci siamo noi, mentre un regime dittatoriale, che dispone di quella che nel libro viene definita “polizia correttiva” – che ricorda tanto la psico-polizia di Orwell nel suo celebre “1984” – può far di noi ciò che vuole nell’indifferenza generale delle Nazioni Unite e del resto del mondo.
Il libro, pubblicato dalla Feltrinelli nella sua prima edizione nel 2014, tuttavia sempre attuale, si presenta in un formato particolare, quello di un passaporto, che già da solo fa riflettere, e ci introduce nella condizione di precariato della vita di chi, costretto a fuggire senza più nulla della propria identità, vive da profugo in cerca di un riparo affinché un giorno possa ritornare ancora nella propria terra, alla fine di questa grande follia tutta umana che è la guerra. Le sue pagine, così toccanti nel linguaggio usato, ci coinvolgono in prima persona facendo precisi riferimenti al nostro Paese devastato dalla guerra contro le nazioni vicine come la Francia e l’Austria un tempo amiche; e poi ancora alla nostra condizione di miseria, riferendosi alle sofferenze della nostra famiglia ma anche a quella dei nostri amici, dei nostri vicini di casa, di tutto il nostro piccolo mondo di certezze che, adesso, con la devastazione e la morte che cammina di pari passo al conflitto, è andato in frantumi e nulla sarà mai come prima.
In questo mondo alla rovescia, gli italiani in fuga dalla penisola si ritrovano a dover chiedere asilo al Nord Africa e al Medioriente, insomma al vicino mondo arabo, il quale, di fronte a questa che vede come una vera e propria “invasione” di europei che non sanno far altro che lamentarsi, rubare, e non conoscono la tradizione e la lingua araba, cioè del primo Paese dove i protagonisti approdano con la fuga nel Mediterraneo, ovvero l’Egitto. Quest’ultimo perciò comincia ad opporre le proprie forze di sicurezza, a confinare i profughi italiani in campi recintati, trattandoli come estranei che non hanno diritto di stare lì. Una fuga dal regime dittatoriale italiano, dove parte della popolazione è assoggettata fisicamente e psicologicamente, e dove per scappare ci si è affidati a dei trafficanti di esseri umani nelle lunghe rotte della speranza, pagate con tutto ciò che ancora era sopravvissuto alla miseria della guerra in corso. Milioni di profughi che dall’Italia si ammassano sui mezzi di fortuna per allontanarsi dalla penisola.
Il racconto si rivolge in prima persona al giovane lettore, invitandolo a immaginare di esserne il protagonista quattordicenne, pronto alla sopravvivenza con ogni mezzo, disposto a qualsiasi cosa per aiutare ciò che rimane della sua famiglia. Impreziosito quindi dalle magnifiche illustrazioni dell’artista danese Helle Vibeke Jensen, arriva dritto al cuore dei giovani e di chiunque lo legga a qualsiasi età, descrivendo benissimo anche la vita nel campo profughi in Egitto dove, tra i rifugiati, non ci sono solo gli italiani, ma anche quelli francesi, l’altro popolo coinvolto nella guerra contro l’Italia. Anche qui dunque iniziano le contese, gli scontri, tra chi ritiene che sia colpa dell’altro se adesso ci si trova in questa situazione. All’interno dello stesso campo si formano delle zone etniche, con vere e proprie bande che spesso si fronteggiano. Le autorità dicono loro che verrà dato un permesso di soggiorno entro sei mesi, ma dopo due anni la maggior parte della gente è ancora rinchiusa in quel campo. Alcuni vengono anche trasferiti in altri campi e devono ricominciare tutto daccapo. Poi, ottenuto il permesso inizia un’altra sfida con la vita: quella di sopravvivere in Egitto come famiglia povera, che non può accedere all’istruzione perché troppo costosa, che è costretta a barcamenarsi come può per lavorare umilmente, anche perché non conosce e non comprende bene una lingua così difficile, e che viene tratta male perché ha un colore diverso della pelle, e il bianco diventa ben presto responsabile di tutti i problemi e di tutti i mali del Paese Nord africano nell’immaginario collettivo.
Quando, molti anni dopo, la guerra in Italia finisce, il Paese non è più quello di prima e, anzi, ha perduto il suo status diventando terra conquistata dai francesi e ad essi federata. Il sogno di tornare a casa svanisce, poiché non vi è più alcuna casa, ma un nuovo regime totalitario filo francese che non è diverso dalla precedente dittatura. Che fare? La vita continua in Egitto come “intruso” in una società che ti tratta ancora come tale, come elemento di disturbo per le proprie tradizioni additandoti come delinquente, incapace di seguire le loro regole religiose, morali, culturali. E per quanto adesso si possa iniziare una nuova vita in questo nuovo Paese, con un lavoro più stabile, una famiglia e dei nuovi amici, ora che il protagonista è cresciuto ed è diventato un giovane uomo, gli altri ti faranno sentire sempre uno straniero, e tu saprai di esserlo perché non avrai mai più una casa e una patria nella quale tornare, se non nei tuoi ricordi.
L’autrice ha risposto alle polemiche seguite alla pubblicazione del libro che lo additavano come testo politicizzato e di parte, dichiarando che non può esservi nulla di politico nel chiedere al lettore l’immedesimazione con gli altri, ovvero in un invito all’empatia tra gli esseri umani compreso chi soffre, come in questo caso, tra chi arriva come straniero e chi accoglie lo straniero. Tutt’al più, ha spiegato la Teller, si tratta di valori filosofici e cristiani più che politici, visto che sono alla base della civiltà umana, e che ci ricordano come tutti gli uomini sono nati liberi e uguali, e non si deve fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.
Antonio Polizzi