La consapevolezza della morte si accentua in occasione di situazioni in cui vi è un rischio significativo per la propria vita. In “ Il libro tibetano del vivere e del morire ”, scritto nel 1992 dal monaco buddista tibetano Sogyal Rinpoche, si narra di un incontro avvenuto nel 1976 a New York tra il maestro Dudjom Rinpoche ed una signora americana terrorizzata dalla prospettiva della propria morte imminente a causa di un cancro appena diagnosticato. Piangendo la signora fece presente la propria situazione al maestro ricevendone però come risposta un sorriso accompagnato da una semplice osservazione: “vede, tutti stiamo morendo. È solo questione di tempo. Semplicemente, alcuni di noi muoiono prima di altri”. Tale risposta riuscì ad indurre nella donna una visione più universale della morte attenuandone l’angoscia; successivamente le venne assegnato anche un esercizio mentale per affrontare la situazione critica. Questo libro costituisce una preziosa fonte di informazioni integrative utili alla comprensione di un testo classico della cultura buddista, “ Il libro tibetano dei morti ”. Entrambi i libri sono stati pubblicati in Italia dalla Ubaldini ma è possibile reperire su internet copie gratuite in formato pdf. Sogyal Rinpoche è giunto in Occidente a seguito della occupazione cinese del Tibet ed è rimasto profondamente turbato dallo stridente contrasto presente nelle società tecnologicamente avanzate, che ignorano le esigenze più profonde dell’animo umano e rimuovono argomenti inevitabili come la morte. Per dirla con lo storico P. Ariès, da oltre un secolo è presente nell’uomo tecnologico una “intima convinzione di immortalità”che ne complica il rapporto con il proprio destino (Storia della morte in occidente; BUR Storia, 1982). L’idea della morte è ammessa solo in ambito medico ma lo specialista tanatologo può applicare il metodo scientifico solo ad una parte degli avvenimenti del fine vita in aiuto del paziente terminale e dei familiari che devono elaborare il lutto. Studiosi come Moody Jr. hanno affrontato la dimensione situata oltre il confine della biologia raccogliendo le testimonianze di pazienti restituiti alla vita dopo essere stati dichiarati clinicamente morti, esperienze peraltro destinate a divenire sempre più frequenti grazie anche alle tecniche di rianimazione.
Quello che il maestro Sogyal propone si spinge molto oltre: “Il libro tibetano del vivere e del morire” introduce il lettore ad una sorprendente ars moriendi orientale, arricchita ed elaborata nel corso di secoli da sofisticati pensatori, in grado di stimolare approcci personali e critici su un argomento che in Occidente si tende ad evitare. Ipotizziamo per un momento che un individuo, assuefatto all’unica realtà che conosce, quella materiale, scopra all’improvviso di essere morto e di aver abbandonato il proprio corpo pur continuando ancora ad esistere come puro pensiero ed emozioni in una nuova dimensione sconosciuta. Normalmente la mente dell’uomo affronta con fatica situazioni stressanti, isolamento e cambiamenti radicali nel corso dell’esistenza terrena, sperimentando crisi di adattamento, angoscia e reazioni psicotiche, non è difficile immaginare quindi come la stessa mente collocata in un contesto di “vuoto”, privo di riferimenti materiali e temporali, possa attraversare delle crisi profonde desiderando una forma corporea. Per la maggior parte degli esseri umani il concetto di vita coincide con l’esistenza corporea e la morte è un evento definitivo che non è possibile comprendere e controllare. La cultura buddista tibetana invece affronta quest’argomento con semplicità offrendo conoscenze e tecniche di conduzione e guida del defunto nell’aldilà. Le diverse versioni del libro tibetano dei morti e la sua moderna interpretazione data da Sogyal chiariscono il motivo profondo della necessità della meditazione per ogni individuo nel corso della esistenza terrena : la vita è un flusso ininterrotto di coscienza che oscillando tra cicli infiniti di incarnazione e temporanee interruzioni causate dalla morte, prosegue fino al raggiungimento della necessaria stabilità mentale ponendo così termine a questo travaglio. Per raggiungere la stabilità è necessario abituare la mente in modo graduale ad una consapevolezza più sottile dell’ordinaria interpretazione sensoriale della realtà, da realizzare tramite un impegno quotidiano con se stessi non delegabile ad altri. In sintesi la tradizione orientale propone una desensibilizzazione nei confronti della paura della morte e delle insostenibili sensazioni correlate al vuoto della incorporeità attraverso una graduale esposizione quotidiana alle stesse. L’autore chiarisce come ogni attimo ed ogni esperienza della nostra vita rappresenti un’opportunità di trasformazione interiore e invita il lettore ad andare oltre i limiti del dibattito attuale sul fine vita che tende a ridurre l’argomento ad una questione meramente tecnologica e farmaceutica, centrata sulla morte fisica (cerebrale). I pazienti sopravvissuti a situazioni di prolungato arresto cardiaco riportano vissuti soggettivi che sembrano concordare con quanto è stato descritto dalle tradizioni spirituali che paragonano la complessità delle fasi della morte a quelle speculari dello sviluppo embrionale e del parto; in entrambi i casi si assiste ad una precisa sequenza temporale di precise fasi e sono possibili delle complicazioni per le quali si rende necessaria una qualche forma di assistenza. Il maestro tibetano ha pubblicato libri e tenuto conferenze sull’argomento, promuovendo in diverse nazioni dei centri per la diffusione di queste conoscenze (in Italia il sito è http://www.rigpa.it) a professionisti, privati cittadini, credenti e non credenti per facilitare un’accettazione dell’inevitabile destino, umanizzando il momento del trapasso rispetto alla tendenza che lo vorrebbe relegare nell’isolamento e nell’asetticità dell’ambiente sanitario.
Paolo Salvatore Polizzi
(Articolo tratto dal mensile “Lo Scaffale” – N. 5 di maggio 2017)