Da tempo viene chiesta da più parti una maggiore regolamentazione dei social network, in particolare sui parametri che dovrebbero gestire il linguaggio offensivo o lesivo, pratica divenuta ormai parecchio diffusa tra molti utenti, al punto che alcuni personaggi più noti come il giornalista Enrico Mentana hanno annunciato l’abbandono di Twitter e Facebook a causa dei “troppi insulti”. Una regolamentazione che dovrebbe altresì riguardare l’attuale assenza di controllo verso i profili fasulli, grazie ai quali vi è una certa parte degli iscritti che nasconde la propria identità dietro nomi e foto fittizie.
Bisogna subito dire che col sopraggiungere dei social network sul web, il cui numero e la diffusione sono cresciuti in modo esponenziale soprattutto nell’ultimo decennio, è venuta a crearsi una prevedibile confusione tra il vero significato del termine Rete Sociale, e le numerose piattaforme virtuali che si fregiano di questo termine.
La rete sociale è innanzitutto una rete fisica, una comunità fatta di persone che si incontrano e comunicano tra loro in maniera reale, condividendo scopi professionali o magari ideologici o religiosi e così via. Nel solco ideale di un simile concetto si è persino riusciti a dare una quantificazione numerica massima degli appartenenti ad una rete sociale, una sorta di limite individuato dallo Psicologo di origine britannica Robin Dunbar, che stabilisce in 150 persone il numero massimo di relazioni stabili che un individuo, da solo, riesce a gestire al meglio all’interno di una rete di questo tipo.
La nascita delle reti sociali sul web, cioè virtuali, ha invece cercato di abbattere questo limite portando l’intero sistema interattivo fino alle sue estreme conseguenze, il più delle volte per scopi commerciali, proponendo ad esempio servizi a pagamento o magari vendendo, in maniera del tutto legale, i dati relativi alle abitudini di consumo degli utenti alle grandi agenzie pubblicitarie. Come immaginabile in qualsiasi attività nella quale l’uomo tende a non avere più il controllo, e a disperdere le sue energie su più fronti contemporaneamente, le conseguenze possono essere sia positive che avere purtroppo anche molti risvolti negativi.
Oggi, i maggiori critici nei confronti dei social network sono anche gli stessi sociologi e antropologi che ieri, per anni, li hanno difesi ed esaltati come espressione di un cambiamento che avrebbe potuto solamente migliorare il mondo. Ciò che adesso invece viene contestato non è dunque il sistema di rete sociale del web, che rimane valido tanto quanto quello comunitario della vita reale e che rappresenterebbe internet come vera e propria “coscienza collettiva”, ma piuttosto la perdita dei suoi intenti più puri, inquinati dalle esigenze di mercato e dall’economia delle multinazionali. Sembrano soprattutto tre i punti che i detrattori del nuovo modo di fare social network pongono sul banco del giudizio.
Il primo ha a che fare con gli attuali livelli di sviluppo commerciale dei maggiori social network: la completa gratuità, prospettata all’inizio come rivoluzione digitale e sociale insieme, col tempo ha lasciato il posto ai vari servizi aggiuntivi a pagamento offerti dalle aziende che gestiscono questi network, con la promessa per l’utente di ottenere maggiore visibilità e quindi una maggiore interazione, come accade con i profili premium per esempio. Persino chi usufruisce dei servizi base gratuiti non è immune dall’esercizio economico che si effettua su di lui, causato probabilmente dall’ingresso nel social network delle piccole e grandi imprese, nonché dei grandi brand commerciali, che hanno stabilito insieme la direzione da prendere, trasformando l’utenza umana in un pubblico di consumatori, da bombardare con spazi pubblicitari ad hoc, agli angoli dello schermo, tenendo conto delle preferenze personali dell’iscritto.
Il secondo punto preso in esame, come testimoniano gli studi compiuti dalla sociologa Sherry Turkle, è il rischio di alienazione dal quotidiano vivere, al quale moltissimi utenti ogni giorno sono sottoposti in maniera più o meno consapevole. Mentre da un lato, infatti, cresce l’interazione degli utenti immersi in questo mondo virtuale per molte ore al giorno – portando ad un ulteriore livello evolutivo la socialità sul web sia in termini geografici che linguistici – dall’altro lato si fa strada invece la voglia di trasformarsi in una personalità multipla, protagonista di una storia virtuale dalle mille sfaccettature, capace di costruirsi un vero e proprio ventaglio di vite parallele, ovviamente più interessanti di quella reale.
Sono i famosi quindici minuti di celebrità, quelli che la tradizione attribuisce ad un’affermazione profetica di Andy Warhol. Tutti vogliamo quei quindici minuti, attraverso il meccanismo dei “Like” per una nostra frase o per una nostra fotografia in una situazione speciale. E così i social network vengono letteralmente invasi da foto di uomini e donne, adolescenti e adulti, in pose ironiche, affettuose, sensuali e molto altro ancora solo per vedersi ricevere “approvazione”. Raccontiamo a tutti i nostri contatti, alcuni dei quali sono dei perfetti sconosciuti, dove siamo stati o dove andremo in vacanza, cosa pensiamo del nostro capo ufficio, quanti denti da latte sono spuntati a nostro figlio, quanto ha dormito il nostro gatto, qual è il menù della serata romantica che stiamo per avere, ecc. In taluni casi si usano le bacheche dei social persino per invitare a cena pubblicamente qualcuno che ci piace, cancellando ogni residuo di intimità.
Il terzo punto riguarda invece la fine della privacy e di conseguenza la reputazione on line degli individui. E’ ormai noto per esempio che molte aziende si affidano soprattutto a delle ricerche preliminari sui social network, prima di compiere il vero e proprio colloquio, per capire se un candidato ha i requisiti richiesti per una determinata posizione lavorativa. A volte il candidato non arriverà mai a quel colloquio proprio a causa di alcuni dati ritenuti poco seri e poco affidabili (talvolta persino sconvenienti) postati sul suo profilo. Allo stesso tempo non è certo un mistero che ogni dato, ogni commento e ogni fotografia che consegniamo alla rete dei social, costituisce una sorta di memoria storica della propria attività e personalità, che non scompare così facilmente dal web, nemmeno quando lo vorremmo. Ed è qui che si innesta un paradosso che coniuga i due ultimi punti esaminati, ovvero quello della seconda personalità, o il nostro avatar, con quello della privacy violata: le tracce lasciate dalle nostre diverse identità virtuali, seppur “lontane” dal nostro Io reale, consentono comunque di ricostruire un quadro molto preciso della nostra identità reale.
Quanto detto finora meriterebbe dunque una riflessione tenendo conto del ruolo che i social network stanno svolgendo nelle nostre vite e nello sviluppo di una nuova cultura di condivisione sociale. Perché se è vero che essi rappresentano la più grande opportunità di crescita e scambio collettivo di cui la Storia umana sia mai stata testimone, è altresì vero che, parafrasando le parole della Turkle a proposito della vita sullo schermo, potremmo dire che il rischio che corriamo è che i social network non stiano facendo più qualcosa “per noi”, bensì lo stiano facendo “a noi”.
Antonino Polizzi
(Articolo tratto dal mensile “Lo Scaffale” – N. 3 di marzo 2014)