Critica della retorica democratica

In un breve saggio edito ormai un decennio fa e intitolato Critica della retorica democratica, il professor Canfora compie un’interessante e molto chiara riflessione sulla democrazia, sul mito costruito attorno ad essa e sui limiti che essa presenta.
Già nelle prime pagine, attraverso l’analisi del processo farsa a Socrate, si esamina una delle questioni centrali legate all’ordinamento democratico, cioè la legittimità del sistema di maggioranza.
Il fatto che la maggioranza di un tribunale di cittadini ateniesi abbia condannato Socrate a morte, rende questa scelta automaticamente corretta oppure non basta solamente la superiorità numerica a rendere giusta una scelta? Attraverso le indagini di altri pensatori come Edoardo Ruffini, l’autore sviluppa la questione del principio maggioritario, “naturale ed ovvio fino a tanto che lo si contrappone al suo assurdo inverso, il principio minoritario. Ma se si riflette quanto numerosi e vari possano essere i mezzi per dare a un gruppo una volontà unitaria, c’è da domandarsi se non abbia ragione Summer Maine, che ritiene essere proprio quello della maggioranza il più artificiale di tutti”. La maggioranza si pronuncia, oggi come ieri, ascoltando i discorsi dei principali attori politici, ma c’è da chiedersi fino a che punto faccia realmente ciò (a tal proposito si può citare un passo dei Cavalieri di Aristofane, dove il Coro si rivolge a Demo: “Tu ascolti sempre gli oratori a bocca aperta; anche se sei presente, il tuo spirito è assente”). La soluzione proposta da Ruffini per questo dilemma aperto dai Greci risiede in una sempre maggiore e sempre più diffusa educazione politica e Canfora indica come “controprova della giustezza di questa intuizione “il dilagare e la travolgente fortuna degli odierni movimenti oscurantisti e antiegualitari, i quali conseguono la maggioranza attraverso una vasta, capillare ed efficace diseducazione di massa resa possibile nelle società cosiddette avanzate o complesse dalla potenza, oggi illimitata, degli strumenti di comunicazione e di manipolazione delle menti”.

Sempre riguardo le decisioni della maggioranza viene da chiedersi fino a che punto poi queste siano libere e quando comincino ad essere “indirizzate” dalla classe dirigente. “La discriminante tra conquista e manipolazione dell’opinione pubblica”, scrive Canfora, “è in verità assai tenue; è soprattutto questione di punti di vista. Quando per la prima volta De Gasperi andò in Usa, scoprì, con un certo raccapriccio, che «chi detiene la Tv vince le elezioni»”.

E se la “manipolazione” dell’opinione non dovesse riuscire, cosa succederebbe? Si arriverebbe anche a truccare l’esito delle elezioni politiche. Nel saggio viene infatti riportato il caso delle elezioni presidenziali statunitensi del novembre 2000; allora infatti “è stata imposta l’elezione a presidente degli Usa di George Bush jr., nonostante egli avesse perso le elezioni”. Quale fu il motivo per cui un “verdetto politicamente predeterminato della Corte Suprema degli Stati Uniti” impedì il conteggio dei voti della Florida, fondamentali per l’elezione di Bush al posto di Al Gore? Si può ipotizzare che vi fosse un candidato che “doveva” vincere, in quanto rappresentante di interessi “superiori”. Questo perché in effetti il “ceto politico esprime tendenzialmente le classi medio-alte e abbienti. Ma è considerato antiparlamentare dire apertamente questa verità di immediata evidenza” (anche altri intellettuali, come Serge Latouche, hanno messo in evidenza l’ormai sempre maggiore influenza degli interessi economici sulla sfera politica, interessi economici che, casualmente, coincidono con quelli di pochi “super-ricchi”).
Senza dubbio la riflessione più interessante riguarda le diciture destra-sinistra e l’elettorato di questi due schieramenti. Opinione di Canfora è che, dal momento che già nel XIX sec. vi sono stati dei partiti che hanno avuto collocazioni variabili nel panorama politico,  al giorno d’oggi non abbia più senso l’uso di queste diciture. Bisogna prendere invece “l’uguaglianza come terreno di differenziazione e come pietra di paragone”, dal momento che oramai le lotte in atto su scala globale riguardano l’inclusione/esclusione dai diritti, in diversi gradi e forme. In questo senso sarebbe di “sinistra” quel partito che “si schiera per l’inclusione, per l’accettazione dell’altro, del diverso, dell’escluso”. La “destra”, al contrario, “tende a serbare la situazione conquistata di benessere o privilegio per i ceti e gruppi, per le nazionalità, i paesi, le consorterie”. Come i partiti si sono modificati, così anche l’elettorato è cambiato. Con la globalizzazione, la divisione della società industriale in proletariato e borghesia si è spostata su scala globale, con i paesi industrializzati che hanno assunto il predominio economico per lungo tempo e i paesi del “terzo mondo” che hanno giocato il ruolo di proletariato.
Tra gli altri argomenti trattati vi è poi la contrapposizione tra la critica oligarchica e la critica elitistica del parlamentarismo (cioè dei regimi rappresentativi basati sul numero). Da un lato gli oligarchici, i quali ritengono realmente legge suprema della democrazia il numero e pensano che solo pochi meritevoli debbano avere diritto di voto, dall’altra gli elitisti, che mostrano come in realtà “non è vero, in nessun modo, che […] il peso dell’opinione di ogni elettore sia esattamente uguale”, e criticano il sistema in quanto fintamente democratico.
Al termine del suo saggio, il professor Canfora si sofferma brevemente a riflettere sulle prospettive del sistema liberalista e liberista (in altre parole democratico e capitalista). Come si può uscire da questo sistema economico e politico, ammesso che questo sia uno scenario prevedibile in tempi storici? Come cambiare un sistema che si fonda sul consenso delle masse ma che alle masse fornisce ben poco potere? Quello che è certo è che, guardando alla storia, nessun sistema socio-economico, per quanto longevo, ha retto allo scorrere del tempo. Ovviamente il capitalismo costituisce un caso a parte, poiché è stato in grado di snaturare il concetto di democrazia, creando una sorta di oligarchia timocratica ammantata di giustizia e uguaglianza ed originando una sorta di “fondamentalismo democratico”, per usare un’espressione coniata da Garcia Marquez per indicare l’intolleranza verso tutto ciò che non sia parlamentarismo.
Non di meno si può ipotizzare che, nonostante manchi al momento una valida alternativa, sarà possibile un giorno un lungo processo di rinnovamento che trasformerà dalle fondamenta la società.

Alessandro Polizzi

(Articolo tratto dal mensile “Lo Scaffale” – N. 11 di novembre 2014)

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