É il 1938, quando a Parigi lo storico e filosofo Étienne Gilson pubblica il saggio Héloïse et Abelard, dedicato alla storia d’amore di Pietro Abelardo ed Eloisa, sua allieva. Per oltre un anno aveva analizzato le lettere dei due studiosi nelle sue lezioni universitarie ed era arrivato alla conclusione che una storia così bella non poteva non essere autentica.
Per lo storico “non soltanto Eloisa ed Abelardo, ma lo stesso secolo XII cambiano d’aspetto a seconda che si neghi o si ammetta l’autenticità di questo notevole documento” ed analizza i contenuti del carteggio e il profilo psicologico dei due amanti, ponendo la domanda con la quale sottotitola il suo saggio: “qual è dunque la lezione dei fatti?”
Le lettere di Abelardo ed Eloisa narrano gli eventi di una storia d’amore realmente accaduta, dolorosa ed intrigante, e per quanto impregnate di una profonda cultura filosofica e teologica, possono essere lette come un “romanzo” anche al di fuori dell’ambiente accademico; con la stesso amore che si ha per la letteratura che consente al lettore di riconoscere la propria umanità nella vita degli altri.
A raccontare la storia dei due amanti, nel susseguirsi degli eventi, è soprattutto Abelardo con la lettera Historia calamitatum mearum , indirizzata ad un non identificabile amico, per consolarlo con il racconto delle proprie sventure. Ma con la sua premessa “così che tu possa considerare o insignificanti o lievi le tue difficoltà, paragonandole alle mie e ti sia più facile sopportarle” è come se si rivolgesse consapevolmente a tutti coloro che (nei secoli) le avrebbero lette.
Attraverso la narrazione della sua vita personale, Abelardo sa di poter difendere anche il suo lavoro, perché sa bene che a causare le sue sventure sono stati il suo ingegno e i suoi insegnamenti e che tutto il suo lavoro rischia di essere travisato o condannato all’oblio, come già accaduto e da lui stesso raccontato, “umiliandomi con il rogo del libro di cui ero più fiero”.
Con il suo metodo di insegnamento, caratterizzato dai due momenti fondamentali della quaestio e della lectio (domanda e analisi di un passo oscuro), Abelardo riscuote grande successo tra gli allievi ma attira su di sé le invidie dei suoi stessi maestri. E quando applicherà l’ingenium alla lettura dei testi sacri, contrapponendolo all’usus ( la “pratica”), che per quanto assidua non raggiunge “il campo dei significati”, sarà più volte processato.
Rispetto alle contraddizioni presenti nei diversi testi sacri, inoltre, il filosofo propone di leggerle alla luce delle numerose trascrizioni e traduzioni subite e non prescindendo dal fatto che i termini possono avere più significati, proponendo così il suo metodo nell’opera, considerata minore, Sic et non.
Con La storia delle mie sventure Abelardo può testimoniare anche la corruzione che alberga nei chiostri, dove da abate, vive tra “figli” nemici che cercano di avvelenarlo.
Il suo racconto è attento e dai toni moderati. Narra gli eventi della sua vita e di quell’amore, così passionale e sfortunato, per la giovane allieva. Si limita ad esporne i fatti, senza lasciar trasparire quel sentimento, per il quale aveva composto anche canti poetici. Non rinnega l’amore, ma lo rielabora alla luce del percorso di vita che era chiamato a compiere con il suo lavoro, per amore del quale accettano entrambi di essere “fratelli in Cristo”.
Nelle sue lettere, Eloisa si rivolge invece ad Abelardo e lo fa parlandogli ancora con amore. “Sai, o carissimo, come sanno tutti, quanto persi perdendo te e quale enorme tradimento, ormai noto ovunque, sottrasse a me non solo te ma anche me stessa […] in me l’amore si è trasformato in una tale indicibile follia da privarsi dell’unica cosa che desideravo, proprio quell’unica cosa, e senza alcuna speranza di riaverla. […] Non ho mai cercato nulla in te, Dio lo sa, se non te; desideravo semplicemente te, nulla di tuo. Non volevo il vincolo del matrimonio, né una dote. Mi sforzavo di soddisfare non la mia voluttà o la mia volontà, ma le tue, come sai. E se il nome di moglie sembra più santo e più importante, per me è sempre stato più dolce quello di amica o, se non ti scandalizzi, concubina e persino prostituta. In questo modo, umiliandomi di più davanti a te, avrei potuto conquistare un valore più grande ai tuoi occhi e, nello stesso tempo, non avrei danneggiato la tua fama e la tua grandezza. […] Tu lo sai; io che ho molto peccato, sono completamente innocente. Il crimine non è, infatti, nell’effetto dell’azione ma nel sentimento che anima colui che agisce. […] Mentre dividevo con te il piacere sensuale, molti avevano dei dubbi su ciò che mi spingeva a farlo e si chiedevano se agissi per amore o per piacere. Ora la fine della nostra storia mostra con quali sentimenti l’iniziai”.
Maria Luisa Polizzi
(Articolo tratto da “Humanities”, supplemento del mensile “Lo Scaffale” – N. 11 di novembre 2017)